Ai piedi dei Ghati Occidentali, lungo le colline di Brahmagiri e verso sud fino al confine con lo stato del Kerala, c’è una fitta coltre di alberi di sandalo e di teak. Fra rovi di cassia dorata e mimosa spinosa, lì dove si aggirano tigri del Bengala, leopardi, gaur e cervi sambhar, un gruppo di capanne in canne di bambù e avanzi di lamiere arruginite è preceduto da un cartello dipinto a mano, che recita: Nostre le foreste, nostre le terre, nostra la giurisdizione. Di fronte, su un’insegna più piccola ma a caratteri più spessi, e firmata dal Dipartimento Forestale locale, si legge: Intrusi.
Nel segno di un paradigma ambientale che fa dei reparti stagni fra uomo e natura la chiave della conservazione ecologica, nell’arco di quattro decenni circa 20.000 individui della tribù Jenu Kuruba, comunità tradizionalmente dedita alla raccolta del miele, sono stati allontanati da quella che oggi è la Tiger Nagarhole Reserve, un’area protetta di 643 km². Un esodo per lo più segnato da uomini in divisa militare armati di manganelli ed elefanti asiatici addestrati come bulldozer di capanne.
Eppure, mentre il caldo e l’umidità segnavano l’ennesima giornata di piogge monsoniche, la scorsa estate circa 150 individui Jenu Kuruba hanno fatto ritorno in quelle che dichiarano essere le proprie terre ancestrali, ricostruendo il villaggio di Karadi Kallu. Denunciano le violazioni dei diritti umani subìte a causa dei ricollocamenti fuori dalla foresta e reclamano un modello di conservazione conviviale, che includa le comunità umane come parte integrante degli ecosistemi da tutelare.
«La foresta è un organismo e noi ne siamo un’estensione» – rivendica il giovane Shivu Jenukuruba Appu, membro della ‘Community Network Against Protected Areas’ (CNAPA) – «Essa vive in noi e noi viviamo con essa».

L’India e la tutela della biodiversità: il paradigma della ‘conservazione fortezza’
Alla sezione ‘Tiger FAQS’ del sito ufficiale del WWF, sotto la domanda Quali sono le leggi indiane e internazionali che proteggono le tigri?, è indicativo che siano citati unicamente il ‘Wildlife (Protection) Act’ del 1972 e la coeva ‘Convention on International Trade in Endangered Species of Wild Fauna and Flora’ (CITES). Il primo è una legge nazionale che tutela la fauna selvatica e i suoi habitat, regolando la gestione delle aree protette. La seconda è un trattato internazionale che disciplina il commercio di specie animali e vegetali, con l’obiettivo di garantirne la sopravvivenza.
È sulla base di queste norme che è stato fondato il Project Tiger, lanciato ad aprile 1973 dall’allora Primo Ministro Indira Gandhi. A quel tempo, in natura erano rimaste solo 1.827 tigri in India, per una specie che solo un secolo prima contava circa 40.000 esemplari nel Paese.
La svolta è però arrivata nel 2006, anno in cui parallelamente si è toccato il minimo storico (1.411 felini) ed è stata creata la National Tiger Conservation Authority (NTCA), un ente statutario per supervisionare gli sforzi di conservazione delle tigri.
Oggi, dalle 9 riserve per tigri per una superficie totale di 18.278 km², il progetto ha raggiunto le 53 riserve per 75.796 km² di aree protette, pari al 2,3% del territorio indiano. Nel mentre, almeno 100.000 membri di comunità tribali e forestali (adivasi) sono state ricollocate al di fuori dei santuari naturali.
L’India ha acquisito e replicato il modello ambientalista definito ‘conservazionismo fortezza’, che presuppone una separazione netta tra uomo e natura. Nato in ambiente statunitense alla vigilia della creazione dei primi parchi nazionali della storia e in seno a grandi organizzazioni come la Wildlife Conservation Society (WCS), si fonda sulla creazione di aree protette inviolabili. La tutela della biodiversità è a gestione centralizzata – spesso tramite enti statali in cooperazione con grandi ONG – e va di pari passo con una protezione di stampo paramilitare – impersonata da guardiaparco o rangers. Il principio alla base, di matrice biblica, sostiene che sia esistito uno stato di natura primigenia e incontaminata, capace di rigenerarsi e di riequilibrarsi autonomamente previa cancellazione della dannosa interferenza umana.
Non c’è da stupirsi, allora, se il WWF non citi il ‘Scheduled Tribes and Other Traditional Forest Dwellers (Recognition of Forest Rights) Act’ (FRA): risalente al 2006, riconosce i diritti individuali e collettivi dei popoli tribali a «proteggere, rigenerare, conservare o gestire qualsiasi risorsa forestale comunitaria che abbiano tradizionalmente protetto e conservato».
Vi fa invece riferimento Survival International, ONG che difende i diritti dei popoli indigeni. «I ‘padri’ americani del movimento conservazionista consideravano le terre indigene vuote o ‘selvagge’ e i popoli che vi abitavano arretrati e invasori», è l’accusa contro un approccio coloniale «basato sul furto di terre». La contro-proposta: un paradigma orizzontale alla conservazione, che include le comunità locali come prime attrici decisionali, che riconosce la portata scientifica delle conoscenze tribali e la storica sostenibilità degli stili di vita tradizionali.
Stando al FRA, intanto, la Nagarhole Tiger Reserve non sarebbe potuta nascere senza che i Jenu Kuruba acconsentissero. Eppure, non sono mai stati interpellati in merito.
Titolari di terre o occupanti abusivi?
Per quanto controintuitivo, anche il FRA, come il Wildlife Protection Act, prevede la possibilità che i titolari dei diritti forestali siano reinsediati da «habitat critici per la fauna selvatica». Sancisce, però, precise condizioni affinché l’operazione possa avvenire.
«C’è una pietra che veneriamo come Kunthoor wodeya», ricorda un anziano Jenu Kuruba. Ogni villaggio ha la propria che ne segna i confini tradizionali. «Negli anni ’90, un funzionario forestale l’aveva confiscata, e gli archeologi ne hanno datato l’origine al XII secolo» continua «e si trova ancora nella sede della sottodivisione di Nagarahole del Dipartimento Forestale». Chiamati “ricollocamenti”, questi interventi presuppongono prima di tutto il riconoscimento e la registrazione dei diritti della comunità indigena, cioè il suo legame originario con le terre da cui si intende allontanarla.
«Il Forest Rights Act non è una legge di concessione fondiaria» ha affermato Ananya Kumar, una funzionaria della riserva. «Non dovrebbe essere usata per assegnare le foreste ecologicamente sensibili dell’India a persone senza terra».
I Jenu Kuruba, così, nell’arco degli anni hanno recuperato certificati anagrafici, documentazione scolastica, permessi ottenuti dal governo e persino una foto satellitare degli anni Sessanta. Ma per una comunità isolata rispetto alla società ‘moderna’, l’onere della prova può limitarsi a memorie collettive, sistemi di credenze e stili di vita legati all’ecosistema locale, più che a una documentazione chiara e risolutiva.
I dati del Ministero degli Affari Tribali, che pure riconosce la tribù come ‘particularly Vulnerable Tribal Group’ (PVTG), mostrano che solo il 5% delle domande individuali di diritti forestali è stato concesso in Karnataka, ovvero quasi 15.000 su poco più di 2.8 milioni totali. Il paradosso è che, sebbene fra quelle rigettate ve ne siano decine e decine provenienti dai Jenu Koruba, i membri dei vari clan continuano ad essere reindirizzati proprio ai “centri riabilitativi” destinati alle comunità tribali reinsediate.

L’educazione che legittima: il doppio standard dell’ecoturismo
«Costruito in autentico stile ‘villaggio Kuruba’», l’Evolve Back Kabini è uno dei tanti resort di lusso a poca distanza dalla Nagarhole Tiger Reserve. Un agglomerato di bungalow, la cui somiglianza con le tipiche abitazioni indigene si ferma però alla copertura in foglie di palma: «Dotata di tutti i comfort che si possano desiderare», la struttura offre una sala di lettura con vista, una Spa ayurvedica, e addirittura una piscina a sfioro.
C’è anche un ristorante gourmet, l’Honey Comb – un omaggio alla principale occupazione dei Jenu Kuruba. Se però la «selezione raffinata di piatti della cucina internazionale e locale», che include ravioli di carne cinesi e pasta al ragù italiana, dovesse risultare troppo sofisticata, i semplici alloggi gestiti dal Governo costituiscono una valida alternativa. Si trovano all’interno della stessa riserva naturale – ma, a differenza delle capanne dei Jenu Kuruba, non rischiano di essere demolite.
In entrambi i casi, il visitatore ha a disposizione un ampio ventaglio di attività, in modo che possa «scegliere il livello di coinvolgimento e il grado di contatto con la natura selvaggia». Fra le più gettonate ci sono, ovviamente, i safari nella riserva.
«Non lasciare nulla se non orme, e non portare via nulla se non ricordi» è lo slogan all’insegna dell’ecoturismo, la forma tramite cui l’ambientalismo si sposa con il capitale: con l’intento di educare e sensibilizzare alla sostenibilità, il fare soldi con la natura si è trasformato in fare soldi per la natura.
La tigre del Bengala è considerata una ‘specie-ombrello’: essendo all’apice della catena alimentare, la sua tutela coincide con il benessere dell’ecosistema da cui dipende. È anche, come l’elefante asiatico, una ‘specie-bandiera’: un animale carismatico che catalizza il fascino e l’interesse del pubblico per promuovere la conservazione di un’area naturale più ampia.
«È chiaramente distinto dal turismo di massa», dichiara la Direzione stessa del Parco, in quanto si basa su «un approccio sostenibile, equo e comunitario»: parte dei ricavati viene destinato tanto ad attività di tutela ambientale quanto a progetti di riabilitazione delle comunità indigene.
«Ci hanno sfrattato con il pretesto che facevamo rumore e disturbavamo la foresta, ma ora ci sono moltissime jeep e veicoli turistici. Questo non disturba gli animali?» ha ribattuto un anziano Jenu Kuruba. Con appena 1500 rupie, infatti, ci si può assicurare il biglietto di entrata con veicolo privato, e mentre le autorità rassicurano che solo un massimo del 20% di una riserva può essere dedicata all’ecoturismo, i giornali locali parlano di almeno 120.000 visitatori annuali nei parchi naturali del Karnataka.
In ogni caso, i costi ecologici sono considerati un prezzo accettabile rispetto al guadagno in termini di sensibilizzazione ambientale.
Il problema compare quando l’attenzione per la tigre offusca le specie chiave da cui questa dipende. L’abitudine a introdurre lavagne interattive all’entrata dei parchi naturali, dove i visitatori possono annotare il numero di avvistamenti di quello o di quell’altro animale, è sintomo della trasformazione dei grandi felini in mera attrazione turistica: una spettacolare – e sempre garantita – esperienza di consumo.

Il conflitto uomo-natura come alibi per gli abusi contro i popoli indigeni
«Non credo ci sia una sola famiglia in India che non desideri elettricità, acqua potabile pulita, una casa dignitosa, un autobus che venga a prendere i propri figli per portarli a una scuola vicina» dichiara il dottor K. Ullas Karanth, esperto di fauna selvatica e primo ad introdurre l’uso dei radio-collari per tigri selvatiche in India.
Per quanto generalizzante, la dichiarazione mette in luce l’ingenua convinzione, tutta occidentale, che l’indigeno non possa avere una fascinazione per le garanzie di benessere offerte dalla vita della società ‘moderna’. Sarebbe paternalistico, infatti, affermare che la totalità dei Jenu Kuruba è stata allontanata, e non che una parte si è volontariamente allontanata dalla foresta.
Già nel 2023, il gruppo ora insediatosi in Karadi Kallu aveva protestato per due settimane presso il Nagarahole Range Forest Office: dopo aver accettato il reinsediamento, avevano realizzato che quanto promesso non era stato mantenuto. Nel mentre, l’assenza dal lavoro nelle piantagioni di caffè era costato loro il licenziamento.
Teoricamente, il Governo sancisce due modalità di compensazione: risarcimento economico o aiuto assistenziale diretto. Queste misure, però, sono state regolarmente adottate soltanto a partire dagli anni Novanta, quando già quasi 3.500 nuclei familiari Jenu Kuruba erano stati allontanati con modalità sommarie.
La maggioranza di loro non ha avuto altra scelta che rivolgersi alle piantagioni di caffè lungo il confine tra Nagarahole e il distretto di Kodagu. «Siamo stati privati delle nostre terre ancestrali nel cuore della notte per essere spinti nella schiavitù» denuncia Shivu, che in una piantagione di caffè ci è nato.
Ci sono altri due criteri imprescindibili previsti dal FRA perché un ricollocamento abbia luogo: il consenso libero e informato delle persone, espresso dal consiglio del villaggio (Gram Sabha), e la presenza di programmi di reinsediamento ben definiti, con mezzi di sussistenza sicuri e strutture completate.
Un recente report redatto congiuntamente da Fridays For Future Karnataka e Adivasi Activists’ Forum for Indigenous Peoples ha però rivelato i diffusi casi di minacce, accuse false, demolizioni forzate, violenze, corruzione.
Basava Raju, di Machhurukerehaadi, racconta che ha accettato di trasferirsi con la promessa di terreni agricoli, scoprendo poi che le terre concesse risultavano sterili, mentre gli abitanti che avevano optato per un risarcimento economico avrebbero ricevuto solo parte dei fondi. Un gruppo di famiglie provenienti da Bogepura, invece, sarebbero state sfrattate in piena notte, subendo distruzione di beni e documenti e trasferite in un centro privo di servizi essenziali. JD Jeyappa, da Rani Gatehaadi, fa presente che durante gli sfratti non è stato mai coinvolto il Gram Sabha.
Condensa la giovane Choudamma: «Nella foresta non avevamo bollette da pagare, perché di elettricità non ce n’era. Là fuori hai bisogno di soldi per tutto, mentre qui invece abbiamo il fuoco».

La presenza umana tra danni presunti e responsabilità effettive
Per il dottor K. Ullas Karanth, la soluzione è quella di portare le persone in prossimità di infrastrutture e servizi, non viceversa. Il FRA, infatti, garantisce alle comunità delle foreste la piena gestione di quelle terre in quanto legittimi titolari: questo significa anche la possibilità di decidere la costruzione nella foresta di servizi e infrastrutture, come tubature o ospedali.
Ancora una volta, uno sguardo occidentale che vede l’indigeno come ‘buon selvaggio’, nel candore di uno stile di vita simbiotico con la natura, non può concepire quella che per Karanth è una minaccia concreta: se la comunità di Choudamma, una volta riconosciuti i diritti fondiari come da FRA, volesse abbandonare il fuoco per l’elettricità – cioè uno stile di vita tradizionale per uno ‘moderno’ – avrebbe il potere di progettare la costruzione di una rete elettrica.
Ad ogni modo, prima di procedere con un qualsiasi ricollocamento, fra i requisiti richiesti vi è che il Governo dimostri che la comunità danneggia irreversibilmente la fauna selvatica, che la convivenza è impossibile. Ma il Karnataka, lo stato con più tigri in India, ha anche il maggior numero di persone che vivono nelle sue riserve. Spostandosi di appena un centinaio di chilometri, nella Biligiri Rangaswamy Temple Tiger Reserve, il riconoscimento dei diritti del gruppo Soliga ha coinciso con un aumento del numero di tigri ben superiore alla media nazionale, fa notare Survival International.
La minaccia principale rimane piuttosto il bracconaggio. Secondo l’ultimo report di TRAFFIC, una rete globale di monitoraggio del commercio di specie selvatiche, fra il 2000 e il 2022 l’India ha registrato 759 casi di sequestro (34% del totale globale) con 893 felini vivi o loro parti (pelli, ossa, denti, zampe) confiscate (26% del totale mondiale).
Riabilitato l’indigeno, la WCS ha però ribaltato i termini del conflitto uomo-natura: «Le tigri sono animali pericolosi che possono uccidere il bestiame e persino gli esseri umani», arrivando a sostenere ai microfoni della BBC che i popoli della foresta «Vivono una vita veramente difficile… nella costante paura di elefanti, leopardi e tigri». Thimma JK, presidente della Nagarahole Adivasi Jemma Paale Hakku Sthaapana Samithi (Organizzazione per i diritti territoriali degli Adivasi di Nagarahole), ha sorriso di fronte a quell’affermazione: la tigre è venerata dai clan locali come incarnazione di Shiva e spirito della natura e la sua vista non desta più stupore di quello che susciterebbe una mucca o un’ape. «Entriamo nel cuore della foresta senza essere spaventati. Semmai, è il Dipartimento Forestale che si porta dietro le armi» gli ha fatto eco Choudamma.
Secondo il WWF, le tigri sono animali solitari che di rado attaccano l’uomo. Le cause principali sono la perdita del loro habitat a causa dell’industrializzazione e dell’urbanizzazione. Oltre che delle piantagioni estensive, incluse quelle di caffè che circondano la riserva e a cui approdano in massa i Jenu Kuruba sfrattati.
Selvatico/addomesticato, naturale/antropico: una divisione impraticabile
La lantana è un arbusto molto scenografico: rugose foglie ovali si intervallano a gruppi di fiori che cambiano colore man mano che maturano. È anche una delle piante più invasive del Karnataka.
«Per ridurre il consumo di legna da ardere, vengono fornite loro stufe senza fumo, e vengono incoraggiati a utilizzare biogas e biobricchette» informa il WWF. Ma i fuochi accesi strategicamente dai Jenu Kuruba nelle foreste sono gli stessi che frenano la crescita imperversante della lantana, che se troppo abbondante diventa una minaccia per la tigre.
«Non è una soluzione win-win, ma die-die. Non sopravviveranno né gli indigeni né la foresta» denuncia Choudamma, di fronte alla sua capanna appena ricostruita, a Karadi Kallu.
La WCS ha annunciato un nuovo modello di «conservazione comunitaria», concentrandosi sulle persone che vivono vicino agli ecosistemi minacciati, non dentro. Prevede momenti di confronto attenti ai «bisogni e i valori della comunità, nonché ai benefici potenziali derivanti dalla conservazione, come migliori condizioni di vita o lo sviluppo dell’ecoturismo». Una strategia che ripropone una netta, ma di fatto impraticabile divisione: In India, almeno una tigre su tre vive al di fuori di una riserva naturale, e gli adivasi contano 104 milioni di persone, il 9% della popolazione totale.
Secondo il WWF, la promozione di stili di vita sostenibili coincide con la riduzione della dipendenza dalle risorse forestali. Fra le opzioni ci sono la produzione di borse di juta, il vermicompostaggio e la tessitura di tappeti. Ma anche l’apicoltura. Paradossalmente, i Jenu Kuruba sono incoraggiati a spostarsi per passare dalla raccolta alla produzione del miele, mentre le api risultano al contempo animali selvaggi in ecosistemi da tutelare e risorsa naturale in un paesaggio antropico. Un po’ come gli elefanti asiatici che attraversano i parchi naturali: alcuni protetti per legge, altri regolarmente adoperati come bulldozer.



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