La sospensione a tempo indefinito del programma televisivo condotto da Jimmy Kimmel (successivamente revocata) non è da interpretare soltanto come un attentato alla libertà di espressione. L’accaduto rientra a pieno titolo in un piano ben preciso di Trump per controllare i media, che sta vedendo la sua realizzazione attraverso intrecci tra istituzioni, emittenti televisive e interessi economici.
Partendo dal principio, lunedì 15 settembre Jimmy Kimmel, durante la conduzione del suo omonimo late show sulla rete ABC, ha pronunciato un monologo dove ironizzava su quanto accaduto a Charlie Kirk, in particolare riferendosi alla reazione di Trump. È arrivata prontamente l’indignazione da parte dei repubblicani e, già il giorno successivo, due reti locali hanno deciso di rifiutarsi di trasmettere il late show, ovvero la Sinclair e la Nexstar, di connotazione manifestamente repubblicana.
Arriviamo così al 17 settembre, giorno in cui Brendan Carr, capo della FCC e repubblicano di ferro, durante un intervista in un podcast ha minacciato di prendere provvedimenti contro le emittenti televisive che si rifiutassero di intraprendere azioni contro Kimmel per via del suo monologo. “We can do this the easy way or the hard way”, ha dichiarato. La risposta non si fa attendere: il gruppo Walt Disney, proprietario della ABC, ha chiuso il giorno stesso lo show di Jimmy Kimmel a tempo indefinito.

La FCC (Federal Communication Commission) è l’agenzia che si occupa sia di gestire e rilasciare le concessioni per le emittenti private, sia di approvare o rifiutare i movimenti societari tra aziende nel settore dell’informazione e dell’intrattenimento. Proprio quest’ultima funzione risulta cruciale per capire tutto ciò che circonda l’affaire Kimmel.
Per spiegare l’intreccio tra interessi economici e politici, occorre prima inquadrare il funzionamento del sistema di distribuzione televisiva americano. Esso è composto da quattro network:
- ABC
- CBS
- NBC
- FOX
Questi network si occupano esclusivamente della produzione dei programmi. La trasmissione spetta infatti alle emittenti locali, alle quali si rivolgono per far sì che i loro prodotti vengano trasmessi sul territorio nazionale.
Ebbene, per quanto sia più che plateale il tentativo di Trump di sabotare i media ritenuti a lui avversi e limitare la libertà di espressione, il modus operandi a cui stiamo assistendo non agisce direttamente sui network. Da tempo, infatti, i repubblicani si stanno rivolgendo alle emittenti locali nel tentativo di ribaltare la narrativa portata avanti da ABC, CBS e NBC (FOX è un network filorepubblicano).
Pertanto non risulta essere un caso che l’epurazione di Kimmel sia avvenuta a partire dal rifiuto di trasmettere il late show da parte di due reti locali, ovvero le sovracitate Sinclair e Nexstar.
Quest’ultima in particolare è al centro di un’importante operazione finanziaria finalizzata all’acquisizione di un’altra rete locale, la Tegna. Stando a quanto riportato da giornali quali il Guardian, si tratta di un accordo di 6.2 miliardi di dollari, chiuso nello scorso 19 agosto, che porterebbe l’80% della copertura televisiva nazionale in favore dei repubblicani. Tuttavia la finalizzazione di tale accordo necessita di un ultimo step: l’approvazione della FCC.
Proprio qui risiede il nodo centrale del tema affrontato. Per quanto la FCC sulla carta sia un ente super partes, l’attuale amministrazione americana ne sta utilizzando i poteri per condizionare le reti locali, spingendo al limite le prerogative di questa agenzia. La vicenda Nexstar sarebbe un banco di prova che mostrerebbe fino a che punto possa spingersi la linea di deregolazione intrapresa da Trump e Brendan Carr.
Difatti, qualora l’accordo venisse approvato, la FCC infrangerebbe norme che hanno regolato il sistema del broadcasting americano fino ad oggi, come la legge federale che impedisce ad una singola emittente di possedere una quantità di reti locali superiore al 39% della distribuzione nazionale.

In sintesi, da un lato Trump sta cercando di invertire le linee mediatiche dei network da lui considerati avversi, passando attraverso le emittenti locali; dall’altro abbiamo un trumpiano di ferro a capo dell’agenzia che si occupa della gestione delle reti locali e a cui spetta l’approvazione di qualsiasi operazione finanziaria. E ancora, il fatto che questa agenzia sia l’ente preposto a dare il via libera ad un accordo che punta a conferire a reti repubblicane l’80% di copertura del territorio nazionale.
Come se non bastasse, sempre il capo della FCC Brendan Carr ha dichiarato che Jimmy Kimmel non sarà l’ultima persona ad avere una simile sorte, mentre Trump ha continuato incitando alla chiusura dei late show di Seth Myers e Jimmy Fallon.
A dire il vero il caso di Kimmel non risulta inedito. Giusto lo scorso luglio, a subire una sorte analoga è stato l’omologo Stephen Colbert, conduttore di quello che è considerato uno dei migliori tra tutti i late show americani, nonché programma di punta della CBS. Risulta quindi ironico il fatto che la Paramount, proprietaria della CBS, abbia dichiarato che la chiusura definitiva del programma fosse avvenuta “per motivi finanziari”.
Tuttavia la stampa e alcuni esponenti dell’ala democratica hanno osservato come tutto questo fosse avvenuto a due settimane di distanza da alcune vicissitudini legali tra la CBS e Donald Trump. In particolare, Trump aveva sporto una causa per diffamazione da 16 milioni di dollari, che si è risolta col versamento della cifra da parte di Paramount, ma senza presentare scuse.
C’è da dire che anche lo sporgere questo tipo di cause rientra in uno schema preciso del Tycoon. Sebbene sulla carta sarebbe un’azione che si risolverebbe molto probabilmente in un nulla di fatto per via delle severe tutele costituzionali riguardanti la libertà di stampa, aprire cause simili ha carattere intimidatorio. L’obiettivo è quello di instaurare una sorta di tavolo di trattative dove sedersi, giocare le proprie carte ed ottenere ciò che si vuole ottenere.
Ulteriore fatto che testimonia come questa sia una pratica diffusa è rappresentato dalla recente causa di 15 milioni sporta nei confronti del New York Times, sempre per diffamazione. In questo caso, però, la vicenda si è risolta in un apparente nulla di fatto, con la deposizione del caso il 19 settembre scorso.
Il giudice ha dichiarato che la causa fosse ripetitiva, superflua e che le accuse fossero piuttosto floride. Dalla sentenza, inoltre, emerge come anche se le accuse di Trump fossero state vere e la causa fosse stata interpretata in maniera indulgente, il modo in cui era scritta violava le regole della corte.
Conclude il New York Times in merito: “manca di qualsiasi pretesa legale ed è un tentativo di soffocare e scoraggiare il giornalismo indipendente”.


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