Nel Napoletano, in Campania, episodi di piogge estreme si alternano ciclicamente a periodi di lunga siccità; nel Polesine, la pianura veneta che guarda al delta del Po, il livello del mare si innalza e penetra con regolarità nelle falde d’acqua dolce; nel Catanese, in Sicilia, il succedersi di alluvioni e trombe d’aria non è più una novità. Da questi territori provengono rispettivamente Francesca Zazzera, Vanni Destro e Noa Hoffler, tre dei dodici privati, intervistati da SiamoZeta, che si sono costituiti parte civile insieme a Greenpeace e ReCommon in una causa legale intentata contro ENI e due suoi azionari, Cassa Depositi e Prestiti (CDP) e Ministero dell’Economia e delle Finanze (MEF).
«La responsabilità di ENI sulla crisi climatica è oramai conclamata» si legge sulla pagina web dedicata alla Giusta Causa, il procedimento intentato contro il colosso petrolifero per «aver messo, e aver continuato a mettere, in pericolo» persone e beni, determinando «danni alla salute, all’incolumità e alle proprietà» – nonostante fosse a conoscenza degli effetti del cambiamento climatico sin dagli anni ’70. La richiesta presentata: che l’Azienda riduca le emissioni del 45% al 2030 rispetto ai livelli del 2020, in linea con l’Accordo di Parigi, e che il MEF adotti una politica economica responsabile nei confronti dell’impresa fossile.
Non è una novità: da decenni, con l’intento rispettivamente di salvaguardare l’ambiente e la salute o di proteggere gli interessi corporativi, le realtà ambientaliste come le grandi Aziende hanno trovato nel tribunale un terreno di confronto dove gli esiti non sono solo legali, ma generano impatto politico.
Quello della Giusta Causa ha segnato una svolta senza precedenti: una recente sentenza della Corte di Cassazione ha riconosciuto ai cittadini italiani il diritto ad appellarsi alla giustizia per gli effetti del cambiamento climatico.
Il contenzioso climatico: la via legale dell’attivismo ambientale
«Finchè i giovani si dedicavano all’orso polare, insomma all’animaletto, andava tutto bene» afferma con amaro sarcasmo Zazzera, insegnante ed attivista ambientale da più di un quarto di secolo. Già da tempo, intanto, l’ambientalismo si è aperto alle dinamiche delle climate litigation: dal 1986 al 2024 sono stati avviati 2976 contenziosi climatici, il 70% dei quali concentrato negli ultimi 10 anni. In italia come in Europa, tuttavia, non esiste un sistema di leggi ben definito: il vuoto normativo viene progressivamente colmato attraverso i precedenti legali, sentenza dopo sentenza.
Per ottenere una maggior possibilità di successo, così, la causa contro il Cane a sei zampe è stata modellata su un precedente vincente, il Milieudefensie et al. vs. Shell: nel 2021 un tribunale olandese ha imposto alla compagnia di ridurre entro il 2030 le emissioni del 45% rispetto ai livelli del 2019, accogliendo il ricorso promosso da Milieudefensie, Greenpeace Netherlands e oltre 17mila cittadini.
Parallelamente, i promotori hanno anche guardato ad un precedente negativo. È stata dell’avvocato Matteo Ceruti l’intuizione di appellarsi preventivamente alla Cassazione: prima di procedere con il regolare processo, i querelanti volevano che la Corte Suprema chiarisse, in definitiva, se in Italia si possa portare avanti una causa legale del genere.
Il rischio era infatti che un tribunale di primo grado stabilisse l’inammissibilità della causa, come già era successo con il Giudizio Universale, quando – era il 2019 – 24 associazioni e 179 cittadini avevano citato in giudizio lo Stato italiano chiedendo di ridurre entro il 2030 le emissioni di gas serra del 92% rispetto ai livelli del 1990.
Anche qui, l’azione legale era stata modellata a partire da un altro contenzioso, il KlimaSeniorinnen Schweiz vs. Switzerland, con cui migliaia di donne anziane – età media 74 anni – avevano ottenuto dalla CEDU, nel 2024, il riconoscimento che il cambiamento climatico colpisce in modo sproporzionato le persone anziane, soprattutto donne, imponendo alla Svizzera politiche più ambiziose. Il Giudizio Universale, inaspettatamente, si era però concluso con una pronuncia negativa da parte dei giudici: la competenza è stata ritenuta politica, non giuridica.
Di conseguenza, Greenpeace e ReCommon hanno badato a citare lo Stato italiano non come soggetto politico, bensì in quanto azionista della compagnia: CDP e MEF detengono infatti un terzo del suo capitale.
Perché se «Ormai il cambiamento climatico è diventato quotidianità», come osserva Hoffler, giovane attivista e dipendente per Greenpeace, «le persone non si sono assuefatte a questa normalità». E per un concreto cambio di rotta, hanno chiesto alla Corte Suprema di esprimersi sugli strumenti legali a disposizione della collettività.

Difendere gli interessi corporativi: Eni e le SLAPP
«Che cosa hanno in comune la ministra francese della Cultura, una clinica di chirurgia estetica nel Regno Unito e il colosso petrolifero Energy Transfer?»: si apre così l’annuncio dei vincitori dello ‘European SLAPP Contest 2025’, un premio satirico organizzato dalla CASE (Coalition Against SLAPPs in Europe), che riunisce oltre 100 associazioni da tutto il Continente per contrastare l’uso di cause legali intimidatorie contro il dibattito pubblico. Alla sua quarta edizione, il contest ha incoronato Eni come Slapp addict of the year – con tanto di targa ritirata da Chiara Campione, program director di Greenpeace Italia.
In risposta alle azioni delle associazioni ambientaliste, infatti, anche le multinazionali del fossile hanno ricorso ai tribunali per proteggere i propri interessi di fronte a possibili cambiamenti normativi.
Le SLAPP (Strategic Lawsuits Against Public Participation) sono azioni legali «minacciate, avviate o perseguite» al fine di «impedire, ostacolare, limitare o penalizzare la libera espressione su questioni di interesse pubblico». La definizione proviene dalla cosiddetta legge di Daphne – in ricordo di Daphne Caruana Galizia, giornalista maltese uccisa nel 2017 mentre era oggetto di 48 procedimenti legali a suo carico -, la Direttiva anti-SLAPP approvata ad aprile 2024 dal Parlamento europeo.
Secondo CASE, in Europa sono in corso oltre 1.000 cause di questo tipo, 166 delle quali intentate solo nel 2023. Il report risalente allo scorso anno illustra che le azioni – per due terzi civili, il resto penali – sono spesso agite da aziende o imprenditori (45,2%) e politici (35,5%) quasi sempre contro giornalisti, editori, attivisti e ONG, e ruotano intorno soprattutto a questioni di corruzione (36,1%) e ambientalismo (16,3%).
Ai 62 casi registrati come attivi in Italia nel 2023, si aggiungerebbe anche l’ultima denuncia per diffamazione di Eni contro Greenpeace e Recommon, accusate nel 2024 di aver condotto una «violenta e pericolosissima campagna d’odio» ai danni dell’Azienda, da cui termini come criminali e omicidio climatico intende tutelare immagine, reputazione e sicurezza.
Bisogna notare che le SLAPP spesso si fondano sul reato di diffamazione, su norme relative alla privacy o al diritto all’oblio: l’abuso non risiede quindi nella natura della causa, ma nell’uso che se ne fa. Ne deriva che trovano terreno fertile in sistemi normativi in cui mancano tutele specifiche: come in Italia, dove la diffamazione resta un reato penale punibile con multa o reclusione da sei mesi a tre anni, ma manca una legge sulle cause intimidatorie.
Almeno fino a maggio 2026, però: per contrastare questa impunità, l’UE ha affiancato alla Direttiva anti-SLAPP una serie di Raccomandazioni agli Stati membri, che includono l’obbligo di adottare una normativa nazionale in merito.
Sono stati definiti, intanto, vari indicatori che aiutano a riconoscere casi legali di questo tipo. Oltre a sfruttare asimmetrie di potere e a basarsi almeno in parte su argomenti infondati, spesso includono azioni transfrontaliere o coordinate: attacchi su più fronti che mirano a massimizzare i costi legali. Non a caso, in apertura all’atto di citazione, Eni precisa che il procedimento è «del tutto estraneo» a quella ribattezzata come la Falsa Causa.
Ancora: le SLAPP spesso includono il rifiuto sistematico di soluzioni extragiudiziali, salvo la completa ritrattazione della controparte. È per questo che si parla di almeno sei denunce intentate da Eni a partire dal 2019 contro giornalisti ed ONG.
Chiamate anche cause temerarie o querele bavaglio, infatti, le più riuscite sono quelle che restano invisibili: minacce non perseguite, ricevute ma non segnalate. Va da sé che i vari comunicati di denuncia da parte dei due Enti sono stati definiti dall’Azienda uno «spregio all’obbligo di riservatezza che caratterizza il procedimento di mediazione».
Il segnale più evidente di una SLAPP rimane, comunque, la richiesta di danni sproporzionati: quelli delle sei cause intentate dal Cane a sei zampe ammontano complessivamente a oltre 10 milioni di euro.
Eppure, l’ultima presentata è l’unica a non chiedere un risarcimento economico. Come osserva Zazzera, l’azienda sfrutterebbe a proprio vantaggio il fatto che le due organizzazioni dipendono principalmente dalla società civile, non da partiti politici, fondazioni o aziende: una vittoria di Eni dimostrerebbe che «potevamo anche far risparmiare questi soldi ai contribuenti», mettendo a rischio i bilanci futuri.
Ma non sarebbe soltanto una perdita economica a limitare l’incisività politica dei due Enti: oltre alla rimozione di contenuti già prodotti, l’Azienda chiede la pubblicazione della sentenza più volte e a caratteri doppi sulle principali testate italiane, nonché di impedire ogni futura attribuzione di responsabilità penali al colosso petrolifero.
Tutto ciò si traduce – almeno per Destro, ferroviere in pensione da sempre attivo nell’ambientalismo – in una forte «eco-incazzatura», più che ecoansia. E pare che l’impegno a «Resistere, avere la forza di non farci spaventare» abbia dato i suoi frutti in termini di sensibilità pubblica: Eni ha già cercato – a più riprese – di distanziare la propria denuncia dall’etichetta di SLAPP.

I punti chiave della causa
«Operiamo nel rispetto della dignità delle persone e dei Diritti Umani e richiediamo lo stesso impegno a tutti i nostri partner». Eni aveva respinto le accuse invocando il diritto alla libertà d’impresa. La Cassazione ha però stabilito che esiste una responsabilità intergenerazionale nella tutela ambientale che consente il controllo della giustizia anche sull’attività imprenditoriale. A maggior ragione se l’azienda, come è il caso, si è impegnata al rispetto dei diritti fondamentali attraverso il proprio codice etico.
In aggiunta, il colosso petrolifero aveva articolato altre due obiezioni, considerando che per la legge italiana un processo può svolgersi nel tribunale del luogo in cui o è avvenuto l’evento generatore del danno, o si è verificato il danno stesso.
Sul primo punto, l’impresa ha puntato il dito contro società autonome del gruppo, operanti all’estero; la Corte Suprema ha chiarito invece che, in quanto capogruppo con un ruolo strategico nella definizione delle politiche complessive, è Eni – che ha sede in Italia – ad esserne responsabile.
Quanto al danno, poiché il cambiamento climatico è un fenomeno globale, gli effetti sarebbero troppo generici per fondare un interesse concreto alla causa. In altri termini, non sarebbe possibile stabilire un nesso causa-effetto tra un alluvione e l’operato del colosso petrolifero. In più, alcuni dei danni lamentati dai querelanti sono ipotetici, futuri: Zazzera teme di diventare migrante climatica, Hoffler di perdere persone a lei care per eventi climatici estremi.
Per questo le due Associazioni si sono appellate ad esperti di attribution science, una disciplina che studia quanto e come i cambiamenti climatici influenzino eventi meteorologici specifici, e che si basa su modelli climatici, dati storici e simulazioni statistiche per quantificare la probabilità che un evento sia stato reso più intenso o si verificherà a causa delle emissioni di gas serra. La fazione opposta si è invece avvalsa dei consulenti Stefano Consonni, professore ordinario del Dipartimento di energia del Politecnico di Milano, e Carlo Stagnaro, direttore ricerche e studi dell’Istituto Bruno Leoni. Contro la presunta indipendenza di entrambi sono presto state mosse critiche: il primo da anni collabora con le multinazionali petrolifere Exxon e Bp, mentre il secondo in passato ha assunto posizioni dichiaratamente negazioniste sul clima.
Infine, l’impresa fossile aveva sostenuto che, anche appurata la presenza di un eventuale danno, la questione fosse di natura politica e quindi di competenza esclusiva del Governo, proprio come era accaduto con Giudizio Universale. La sentenza ha però affermato che l’obbligo della tutela della salute e dell’ambiente «impone alle autorità nazionali, compresi i tribunali, di garantire ai cittadini e alle associazioni il diritto di accesso alla giustizia».
La causa, dunque, è stata dichiarata ammissibile e può procedere regolarmente.
«Al di là di quello che possono fare le multinazionali per demistificare la nostra richiesta» – sostiene Destro – anche «chi ha sempre detto che è normale, che d’estate fa caldo, d’inverno fa freddo» sa che «la nostra è un’osservazione puntuale delle problematiche attuali».
Ora, manca solo il parere del Tribunale di Roma.

Il ponte fra globale e locale, per una vera giustizia climatica
«Io pago il gas a Eni. A me arriva la bolletta di Eni a casa» confessa Zazzera, anticipando l’ovvio interrogativo: «Come, proprio tu? E non puoi passare ad un’altra compagnia?». Potrebbe, ma l’altra compagnia comunque si rifornisce da Eni e, attualmente, non ha la possibilità di installare una cucina elettrica. Così, l’insegnante campana cita in giudizio l’Azienda non soltanto come parte lesa, ma anche come utente, chiedendo che questa «Finalmente si ripulisca, ma non con il greenwashing. Si ripulisca sul serio».
È l’esempio di come non basti più impiegare la maggior parte delle energie per «chiedere alle persone azioni di responsabilità individuale, basate sul senso di colpa dei singoli», sostiene Hoffler. Riconoscendo che «facciamo tutti e tutte parte di un sistema», oltre a barriere culturali o economiche che ostacolano scelte consapevoli, per ottenere un pieno margine di azione occorre agire nei confronti di chi ha il potere di guidarne le dinamiche.
Attualmente, alcune importanti sentenze sono in fase di revisione, o sono state addirittura ribaltate – come quella contro la Shell in sede di Corte d’Appello. Come afferma Destro, siamo in un momento storico in cui «Eni può farsi forte che il riconoscimento del cambiamento climatico da parte degli Stati è ancora incerto», anche per l’influenza negativa della «spinta trumpiana». Occorre quindi risalire a monte per «trovare il filo logico e far fronte comune», così da definire una cornice generale che, tradotta a livello locale, diventa strumento concreto per politiche responsabili e incisive.
Intanto, sentenza Zazzera in un sorriso, «il Cane a sei zampe è un po’ azzoppato».


Lascia un commento