Con l’arrivo dell’autunno si presenta la seconda occasione che abbiamo durante l’anno per “ripartire”. Le giornate si accorciano, arrivano le prime piogge e le responsabilità ci vengono a bussare alla porta. Eccoci, pronti ad affrontare un nuovo inizio mentre pensiamo: “arriverà un’altra estate”.
L’autunno è il momento in cui le stazioni dei treni e degli autobus diventano vivaci formicai: si incontra lì la gente che riparte e abbandona la sua prima vita per tornare alla seconda. Siamo tutti noi studenti fuorisede.
Voler partire la prima volta, quando sono andata via di casa, è stata una decisione semplicissima. Dopo 3 anni, invece, dover ripartire è un’azione leggera e pesante insieme. Presuppone tornare dalla famiglia che mi sta crescendo (amici, coinquilini, colleghi) e lasciare la famiglia che mi ha cresciuta. Presuppone sentirmi dire da entrambe “Ci vediamo presto. Stai attenta!”, con la consapevolezza che il significato della frase cambia a seconda di chi la pronuncia. Quel “presto”, infatti, indica un tempo relativo: per gli amici, colleghi e coinquilini si tratta di ore, per la famiglia di mesi.
Sono costretta a salutare la versione “giovane” della mia famiglia: quando la rincontrerò, i miei nonni avranno qualche ruga in più, i miei genitori qualche capello bianco in più e i miei fratelli saranno ancora più alti (purtroppo non posso bloccare l’adolescenza…).
Ripartire significa riconoscere i nostri bisogni e travestirli da sensi di colpa. Però, effettivamente, come si arriva a questo punto? Si attraversano quattro fasi:
- “il coraggio”: ci aiuta a partire;
- “l’abitudine”: ci fa sentire a casa;
- “la nostalgia”: ci fa mancare Casa;
- “il senso di colpa”: ci distrugge.
“PER FARE UN FUORISEDE CI VUOLE UNA CASA”
Ma ricorda: il pensiero di non farcela ci sta distraendo dallo starci riuscendo.
Sono ormai tre anni che anni che vivo a Roma e, nonostante non abbia mai cambiato casa, ho cambiato parecchie coinquiline. Sono stata testimone di tante esperienze diverse: ho visto alcune persone scegliere meticolosamemente una camera, altre trasferircisi senza neanche averla visitata e altre ancora disperarsi perché se la sono vista scivolare via.
Proprio il mese scorso una ragazza ha visitato l’appartamento in cui vivo, e sembrava le fosse piaciuta molto. Mi aveva addirittura salutata dicendomi: “credo proprio che ci rincontreremo come coinquiline!”, ma così non è stato. La sua euforia è stata battuta dalla velocità di un’altra ragazza nell’avviare le pratiche per il contratto.
Dalla fine della pandemia infatti, il mercato immobiliare si è saturato: il rientro in città delle persone che erano tornate dalla famiglia ha causato problemi nell’equilibrare la nuova domanda immobiliare. Si è scatenata una vera e propria crisi abitativa.
Nel giro di due anni, tra il 2021 e il 2023, era diventato impossibile trovare stanze in affitto a cifre modiche. Nel giro dell’anno successivo, tra il 2023 e il 2024, è diventato impossibile trovare stanze in affitto.
Nessuno strumento sembra funzionare: agenzie immobiliari, siti online, Facebook, il passaparola sono diventati inutili. Le case si affittano solo se si è fortunati, veloci e poco pretenziosi.
Purtroppo questa crisi ha conseguenze anche sugli studenti che già sono in affitto: molti si sono visti aumentare il canone mensile (nonché le bollette, ma quella è tutta un’altra storia) perché “lo fanno tutti e quindi ci adattiamo anche noi al mercato”.
Secondo il rapporto di “Immobiliare.it Insights”, a Milano il canone mensile per una stanza singola è aumentato del 4%, a Bologna del 5% e a Roma addirittura del 9%. La Capitale, tra l’altro, registra il più alto incremento nella domanda locativa: +62% nonostante l’aumento dei prezzi.
Avere una casa è un bisogno primario innegabile. E no, andare a vivere fuori non è sempre “un capriccio a cui si può rinunciare”. Peccato che, stanti le condizioni attuali, è quello che accade. I prezzi di mercato si stanno appiattendo sempre di più lasciando senza opportunità le persone meno abbienti.
L’Unione degli Universitari lamenta la negligenza governativa e individua nel PNRR un’occasione sprecata. Nonostante il Piano Europeo miri a triplicare il numero (da 40.000 a 105.000) di posti letto per gli studenti fuorisede, l’assenza di coordinamento tra i vari attori e le insostenibili condizioni di accesso al credito, stanno impendendo la realizzazione di questo obiettivo.
“NE VARRÀ LA PENA?“
Quando ho chiesto ai miei genitori di frequentare l’università a Roma, ero consapevole dell’enorme sacrificio economico che sarebbe costato loro. È per questo che oltre all’ansia per gli studi, sento sulle mie spalle anche la responsabilità di dimostrare loro che ne sia valsa la pena e laurearmi il prima possibile.
Fortunatamente non c’è stato bisogno che lavorassi (oltre alla borsa di studio, ho sempre ricevuto l’aiuto della mia famiglia). Mi rendo conto però del privilegio che la possibilità di non lavorare rappresenta: ho avuto -e continuo ad avere- la possibilità di concentrarmi solo sugli studi senza preoccuparmi personalmente della sfera economica.
Per questo motivo è stata Mariagrazia, una collega di redazione, a raccontarmi la sua esperienza da fuorisede/lavoratrice. Dalle sue parole si evince una stretta correlazione tra percorso accademico e ansia finanziaria, facendo anche riferimento al peso economico che comporta l’andare fuoricorso: “Ho sempre sentito la necessità di fare il possibile per restare in corso ed evitare di pagare ulteriori tasse”.
Andare all’università è costoso per tutti. Tra affitto, tasse universitarie e vita quotidiana, la spesa annua per uno studente è esorbitante. Mediamente gli studenti in sede spendono 9 mila euro per ogni anno di corso, i pendolari 10 mila e i fuorisede arrivano addirittura a 19 mila. La laurea ce la stiamo letteralmente comprando.
Di fronte a questi dati, laurearsi diventa un importante dovere nei confronti di chi ha deciso di credere in noi e investire nel nostro futuro (ndr, se si riceve l’aiuto economico di qualcuno). Con la corona d’alloro in testa, sogniamo di guardare gli occhi fieri dei nostri genitori e, tirando un sospiro di sollievo, pensare che ne è valsa la pena.
La gestione dei soldi è una delle maggiori cause di ansia tra i giovani. Una volta arrivati nella città universitaria, ci troviamo a dover capire come sopravvivere nella nostra ignoranza finanziaria. Per compensare il pagamento dei costi fissi mensili, limitiamo la vita sociale e le occasioni di convivialità. E nonostante questo, continuiamo ad avere l’ansia quando andiamo a fare la spesa.
Il magazine online “Rame” racconta l’esperienza di Stefano: studente fuorisede a Bologna riceveva inizialmente l’aiuto economico dei suoi genitori, ma inizia a nutrire un forte senso di colpa. Decide allora di iniziare a lavorare: smette di seguire le lezioni per dedicarsi al lavoro e si augura di riuscire a laurearsi in tempo.
Nasce qui un circolo vizioso da cui è difficile uscire: studiare ma non avere abbastanza soldi, lavorare ma non avere abbastanza tempo e così via all’infinito. L’unica cosa che ci si chiede nel frattempo è: “ne varrà la pena?”
Studiare in una città nuova è un privilegio. Questo, però, non lo esclude dall’avere implicazioni nella dinamica familiare. Il rapporto tra studente e famiglia è reso ancora più complesso dalla dipendenza economica e dal suo conseguente senso di colpa.
Siamo consapevoli che questa spirale si interromperà solo quando inizieremo a lavorare “seriamente”. Nel frattempo, oltre la mera disponibilità economica, bisogna prendere in considerazione la volontà di non pesare sulla famiglia: consapevoli dell’impossibilità di mantenerci da soli, lavoriamo cercando di dipendere il meno possibile sui nostri genitori e speriamo che questo basti a ridimensionare il nostro tormento.


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