“Vorrei proprio vedere se avessero ucciso tuo fratello”. Mi dice bruscamente così E., una mia coinquilina francese che ha perso suo fratello in un incidente stradale. Quando le dico che il carcere non dovrebbe punire ma rieducare mi risponde: “L’assassino di mio fratello era ubriaco e alla guida, ma anche se era lui che stava infrangendo le regole, è ancora vivo. Mio fratello, che non aveva mai bevuto in vita sua, non c’è più. Mi dici come potrei mai desiderare che gli venga concessa un’altra possibilità? Io non posso accettarlo.”
Cosa rispondi a un dolore del genere? Niente, in quel momento. Non puoi biasimare il desiderio di vendetta per la morte di un innocente a causa di un colpevole.
Poi mi sono imbattuta in un’altra storia:
«Il 12 agosto 2020 lo hanno messo in isolamento in una cella vicina all’infermeria, una stanza piccola e sporca, maleodorante con escrementi sulle mura. Lì gli avrebbero consentito di fare solo mezz’ora d’aria al giorno. Lui chiede di poter parlare con gli psicologi e di essere sottoposto a visita medica, ma gli viene negato. Mi fa sapere di sentirsi sepolto vivo e che ogni giorno gli fanno rapporti disciplinari per fatti non accaduti per provocare la sua reazione»
V. M. è recluso nel carcere di Viterbo Mammagialla dopo essere stato condannato in quanto rapinatore seriale. La sua compagna, durante le videochiamate (unico modo per i detenuti di comunicare durante il periodo del Covid), nota segni allarmanti: “cicatrici che prima non aveva”, “vesciche alle mani”. Successivamente, le verrà raccontato che le cicatrici sulla testa erano dovute ai pestaggi degli agenti, e le vesciche alle mani causate da ustioni fatte con pezzi di plastica incandescente, sempre dagli agenti.
Davanti al dolore della mia compagna di classe e della compagna di V., due dolori molto diversi tra loro ma anche così simili, non possiamo che domandarci: punire in modo atroce ha senso?
L‘inutilità del male
La questione è molto delicata, e dovrebbe partire da una domanda molto semplice: perché esiste il carcere?
Non elencherò tutte le possibili risposte a questa domanda, ma una in particolare è interessante: quella contenuta in “Dei delitti e delle pene” di Cesare Beccaria. Secondo lo scrittore, la giustizia esiste alla luce di un’ umanissima constatazione universale, ossia: tutti gli uomini desiderano essere felici. Siamo felici essendo liberi, ma quando la libertà dell’altro va ad intaccare la nostra felicità (nel momento in cui ruba, ferisce o uccide), si crea il corto circuito. È un’osservazione a mio avviso bellissima perché ci riconduce a una nostra tensione primordiale, cioè la felicità. Beccaria prosegue: la pena è stata inventata dagli uomini per contrastare tutte quelle persone che volevano intaccare la serenità dell’altro nella società. Se preservare la nostra tranquillità e quella dell’altro è il primo dei nostri scopi, mettere in atto pene atroci (torture, punizioni o pena di morte) non solo è disumano, ma è anche inutile. E che sia inutile, oltre che suggerircelo l’etica, ce lo suggeriscono i dati. Infatti, una volta scontata la pena, nel 68,45% dei casi i detenuti delinquono nuovamente e tornano in galera: questo ciclo implica un costo annuo di tre miliardi di euro. Le violenze commesse nelle carceri non sono funzionali a dissuadere dal commettere crimini, e non fanno bene nemmeno alle nostre tasche.
Critica della ragion penale
Lo scorso 7 febbraio durante una conferenza stampa Sanremo 2023, in occasione del 75esimo anniversario della Costituzione italiana, un giornalista chiede ai conduttori: “Se doveste voi leggere un articolo della Costituzione, quale scegliereste?”. Cala l’imbarazzo in sala. “La Costituzione è talmente bella che lo prenderei a caso” risponde Amadeus, “idem” lo segue in difficoltà Ferragni. Solo Morandi riesce ad accennare ad un articolo: il primo, quello che si studia in ogni scuola: “L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro”.

Si sono scatenate critiche e polemiche per l’incertezza dei conduttori, ma ora non siamo qui per parlare di questo. Perché ho citato questo aneddoto? Per ricordarci che probabilmente pochissimi di noi potrebbero recitare un articolo a memoria. Tuttavia la Costituzione italiana non è lì per essere ripetuta come se fosse una poesia. E’ lì per ricordarci chi siamo, quali lezioni abbiamo imparato, quali traumi condividiamo, ed è a lei che bisogna far riferimento in momenti di confusione, anche quando non la si ricorda. A tal proposito, c’è un articolo che ci aiuta moltissimo per ciò che concerne le carceri:
” […] Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. […]”
Ergo, la pena serve a recuperare il condannato, quindi si deve fare di tutto per poter salvare il salvabile. E non c’è delitto che possa giustificare un trattamento contrario al senso di umanità.
Cosa significa?

Significa che alla privazione della libertà non è possibile aggiungere l’annullamento della dignità umana e dell’identità della persona. Dunque noi abbiamo imparato e abbiamo capito che ogni persona deve mantenere i propri diritti inviolabili anche quando si è macchiato di gravi delitti. Proprio perché non si cura il male con un male più grande, infatti, la maggior parte di chi commette un crimine quando esce lo commette ancora e rientra in carcere.
A tal proposito rimandiamo a un bellissimo Tedx Talk del fisico Sergio Abis, che dopo aver commesso un grave reato si è costituito poco dopo i sessant’anni. Dopo essere uscito racconta la sua esperienza, di cui riportiamo uno spezzone:
“Il carcere è tutto così. Hai bisogno di mangiare? Ti devi mettere d’accordo con altri delinquenti per mangiare, se non hai soldi per pagartelo. Che cosa vuol dire questo? […] Che chi entra in carcere, non fa altro che fare una vita da delinquente insieme ad altri delinquenti: e te lo dicono proprio loro, i poliziotti! […]Il carcere è fatto così. Se non sei un delinquente farai bene a diventarlo, e anche in fretta: perché se non diventi un delinquente in fretta, cosa ho detto, prima? Ci si ammazza 20 volte di più che in libertà.”
A questo proposito, il giornalista Francesco Oggiano, dopo aver effettuato una raccolta delle testimonianze di alcuni mafiosi usciti di carcere, racconta:
“Paradossalmente il carcere per i mafiosi è il luogo perfetto in cui continuare a esercitare il potere, mantenere il prestigio, costruire il consenso. Per i mafiosi il carcere non è affatto una pausa dalla carriera criminale, ma ne è piuttosto una prosecuzione e a volte un vero e proprio catalizzatore.”
Quando le sbarre del carcere non sono l’unica gabbia
Non ero io ad essere rinchiuso in gabbia, ma il mio corpo. E mentre la mia povera carne giaceva – senza provare sofferenza, del resto – nella piccola morte della camicia di forza, il mio dominio sul corpo era totale e potevo percorrere lo spazio infinito a mio piacimento.”
– Il vagabondo delle stelle, Jack London
Abbiamo visto quanto il carcere italiano si sia rivelato teatro di torture, e abbiamo visto l’inutilità pratica di questa tendenza. Abbiamo anche visto l’enorme rischio di recidiva che si incorre e che i mafiosi entrati in galera non modificano minimamente il proprio stile di vita ma anzi, lo accentuano. E ai più deboli, cosa succede?
Ora vorrei aprire una brevissima parentesi riguardante non ciò che avviene all’interno del carcere ma ciò che avviene all’interno della mente dei carcerati.
Vivere nel carcere italiano oggi non è semplice e anzi, come riportano numerose testimonianze, si realizza una violazione dei diritti umani notevole nei confronti dei detenuti. Nel 2022 nelle carceri italiane si sono tolte la vita 84 persone; non a caso, secondo dati forniti dall’OMS, in Italia i casi dei suicidi in carcere sono oltre 13 volte in più rispetto alla popolazione libera. Nel 2020 sono stati registrati 11.315 episodi di autolesionismo (dato probabilmente sottostimato).
Il sociologo Donald Clemmer osserva che nel corso dell’espiazione della pena il soggetto detenuto è portato a un annichilimento della personalità e dei valori che aveva prima dell’ingresso in carcere. Viene denominata dagli addetti ai lavori “sindrome da prigionizzazione” e dimostra quanto l’ambiente carcerario possa essere nocivo per i soggetti più deboli che lo subiscono, sforniti di strumenti adeguati a reagire al contesto di privazione della libertà personale. A ciò si aggiungono il disturbo dell’adattamento, i disturbi legati all’uso di sostanze stupefacenti, il disturbo del controllo degli impulsi e i disturbi della personalità.
Per un’altra via
Il carcere per come lo concepiamo tutti noi però non è l’unica via percorribile per chi deve scontare una pena. Anzi, misure alternative esistono ed è stato dimostrato che funzionano: dei condannati che hanno scontato una misura alternativa solo il 19% è recidivo (contro il 68,45% dei carcerati, fonte: DAP).
Sempre Sergio Abis ci racconta possibili alternative sperimentate dalla comunità sarda “La Collina” , un “carcere alternativo” ad approccio rieducativo.
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Carcere (Contenitivo) |
Carcere alternativo (rieducativo) |
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Non si lavora e si ozia (insieme ad altri delinquenti) |
A causa di tutti gli impegni l’ozio è praticamente impossibile, i detenuti lavorano. |
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Si acquisiscono pessime abitudini (sempre TV, carte e litigi) |
Orari scanditi dal lavoro, poca TV, litigi risolti con la mediazione collettiva |
| Si mangia a spese dello Stato (molto male se non si hanno soldi) | Si paga il proprio mantenimento: non ci sono differenze tra i detenuti |
| Ci si basa sui rapporti di forza: si obbedisce agli ordini del più forte | Si aderisce al comportamento dell’educatore, che è anche un collega |
| Si vive dietro le sbarre, sempre chiusi, con poca interazione sociale | Non si resta mai da soli ma non ci sono chiavi, c’è molta interazione sociale |
| Quasi nessuna attività culturale (e poco confronto con il mondo esterno) |
Si partecipa attivamente ad attività culturali, anche con persone che vengono fuori dal carcere |

